
“Si dice sempre che le donne servono, servono alla politica, come alla amministrazione, all’università, come all’impresa, alle arti come alle scienze. Dicono anche che le donne hanno una marcia in più. Ma questa marcia in più consente loro di raggiungere i loro traguardi? Di scrivere con l’inchiostro delle proprie competenze il proprio futuro piuttosto che quello della società?”
Si è aperto con questo interrogativo l’evento organizzato in Senato in occasione della festa della Donna dalla Presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati a cui ha partecipato anche una delegazione di Giovani Imprenditori di Confindustria insieme alla Direttrice Generale Francesca Mariotti e a Elena Pedrazzini, fondatrice di Twin Studio che ha portato la sua testimonianza aziendale.
Abbiamo provato a rispondere a questo interrogativo partendo dal mondo a noi più vicino, quello dell’imprenditoria, nell’ambito di un confronto sull’empowerment femminile organizzato il 19 giugno a Palermo, come raccontato nell’articolo di Maria Elena Oddo in questo stesso numero.
Sicuramente ci sono dati incoraggianti, come l’incremento dell’occupazione femminile che secondo i dati Istat a marzo ha raggiunto il 51,2% con 9.776.000 donne occupate.
Altrettanto positivo il fatto che il nostro Paese si posizioni al quinto posto nel mondo per la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle società (36,3%). Risultato sicuramente dovuto agli effetti della Legge «Golfo-Mosca» del 2011, che promuove la parità di genere prevedendo le “quote rosa” nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate. Un risultato che speriamo diventi una conseguenza dovuta non solo ad una legge, ma ad un cambio di passo e di mentalità collettiva.
La strada per il raggiungimento della parità di genere è tuttavia ancora lunga: poche donne ricoprono ruoli manageriali apicali come quello di Amministratore Delegato o di Presidente. Per non parlare della disparità salariale: secondo il «Gender Gap Report 2019», in Italia, a parità di mansioni, la donna rispetto a un collega uomo è come se iniziasse a guadagnare dalla seconda metà di febbraio. La differenza a sfavore delle donne dipende dal fatto che ancora troppo poche sono quadri e dirigenti. Secondo i dati Istat, dal 2008 al 2018 la percentuale di dirigenti donna è passata dal 27% al 32%, quella dei quadri dal 41% al 45%. Ma se escludiamo la PA e consideriamo solo le imprese private, la percentuale di dirigenti donne è solo del 15%, quella dei quadri il 29%.
È in questo contesto che si inserisce la legge 162/2021 che ha modificato il codice delle pari opportunità introducendo a partire dal 1 gennaio 2022 l’obbligo per le aziende con più di cinquanta dipendenti di redigere la certificazione sulla parità di genere, ossia un documento volto ad illustrare le politiche e le misure concretamente adottate dal datore di lavoro per ridurre il divario di genere, quali, ad esempio, le opportunità di crescita in azienda, l’uguaglianza salariale a parità di mansioni, le politiche di gestione delle differenze di genere e la tutela della maternità.
Tale obbligo diviene una facoltà per le aziende pubbliche e private che occupano fino a 50 dipendenti. Alle aziende in possesso della certificazione sulla parità di genere al 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento, è concesso un esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro fino a un massimo di 50mila euro annui. Le predette aziende potranno inoltre beneficiare di un punteggio premiale per la valutazione da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.
Auspichiamo che tale intervento normativo possa essere uno stimolo per le aziende per implementare e migliorare le azioni volte a garantire il rispetto della parità di genere. Per capire l’importanza di tale obiettivo basti pensare che il quinto dei Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite è dedicato alla parità di genere tra uomini e donne e chiede a tutti i Paesi del mondo di garantire alle donne parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, a un lavoro dignitoso, così come la rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici.
L’obiettivo sulla parità di genere è inoltre considerato dal Pnrr una delle tre priorità trasversali in termini di inclusione sociale. Al punto da voler raggiungere entro il 2026 un incremento di ben 5 punti nella classifica dell’indice elaborato dall’Istituto Europeo per l’uguaglianza di genere.
Investire nella gender diversity non è solo eticamente e socialmente importante, ma è anche economicamente vantaggioso. Secondo una stima del 2018 della Banca Mondiale, l’economia globale rinuncia a 160 trilioni di dollari di ricchezza per la bassa partecipazione femminile al lavoro, un calcolo elaborato sulla base di 141 paesi.
Più sostenibili economicamente sono anche le aziende che investono nella gender diversity. Secondo lo Studio Diversity and financial performance del 2017 di Mc Kinsey, infatti, le aziende che investono per garantire la parità di genere hanno la possibilità di migliorare la propria performance economica di oltre il 20%.
Certo il raggiungimento della parità di genere è una sfida impegnativa, che richiede tempo. È evidente che una profonda riforma delle istituzioni scolastiche e imprenditoriali per ridurre il divario di genere è possibile non solo con una presa di coscienza collettiva, ma con un’attenta e studiata riforma sociale, politica e finanziaria a livello nazionale, “uno sforzo collettivo del Paese” come ha sottolineato la DG Mariotti.