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GLI EQUIVOCI E GLI ERRORI NELLA LOTTA ALL’INFLAZIONE

Dopo la crisi finanziaria globale, quella del credito sovrano e la pandemia, quest’epoca turbolenta ci ha portato in dote l’inflazione dell’ultimo biennio, un fenomeno che le generazioni nate dopo il 1970 non avevano mai sperimentato; anzi, gli anni Duemiladieci sono stati caratterizzati da una difficile lotta delle banche centrali contro la tendenza deflazionistica dell’economia.

UN’INFLAZIONE STRUTTURALE

L’inflazione ha iniziato ad aumentare nell’estate del 2021. Dopo i lockdown si è assistito ad una ripresa robusta di consumi e investimenti mentre l’offerta, disarticolata dalla pandemia, stentava a ripartire. A complicare le cose, la composizione settoriale della domanda è stata fortemente alterata (ad oggi non è chiaro in che misura questa ricomposizione sia permanente).

Alcuni settori si sono dunque trovati a sperimentare eccessi di domanda e altri eccessi di offerta. L’aumento dei prezzi dell’energia è poi stato amplificato da fattori geopolitici, in primis l’invasione dell’Ucraina. Si tratta di un’inflazione multiforme, insomma, causata da una combinazione di trasformazioni nella struttura dell’economia, shock economici e geopolitici; quindi, insidiosa e difficile da afferrare. Forse anche per questo la discussione su come affrontarla ha girato al largo dalle cause strutturali per aderire ad un’interpretazione molto più semplice e in qualche modo rassicurante: richiamando una vecchia massima del monetarista premio Nobel Milton Friedman, commentatori ed economisti hanno affermato che l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. Ma se l’inflazione è esclusivamente “troppa moneta a caccia di troppi pochi beni”, ne consegue che essa non può che essere affrontata dalla politica monetaria, che deve riuscire a drenare la liquidità in eccesso. Non è questa la sede per affrontare in dettaglio le ragioni e i limiti di questa narrazione (lo faccio in Oltre le banche centrali, appena uscito per Luiss University Press). Qui basti dire che, coerentemente con l’interpretazione monetarista, dopo una encomiabile iniziale prudenza, le banche centrali si sono lanciate nella primavera del 2022 in una corsa alla restrizione che ha portato i tassi di interesse europei ai massimi storici.

E SE NON FOSSE LA POLITICA MONETARIA LO STRUMENTO ADATTO A COMBATTERE L’INFLAZIONE?

Nell’autunno scorso l’inflazione ha iniziato a calare, spingendo alcuni a esultare e a lodare le banche centrali finalmente rinsavite. In realtà il calo dell’inflazione è stato esclusivamente dovuto al venir meno dei fattori strutturali: i colli di bottiglia si sono riassorbiti, i prezzi dell’energia sono calati, le catene del valore si sono riorganizzate. La politica monetaria non ha giocato alcun ruolo. La letteratura empirica è infatti concorde nello stimare i ritardi di trasmissione (il tempo che deve trascorrere perché variazioni dei tassi inizino a farsi sentire su inflazione e crescita) in 12-18 mesi almeno. Detto altrimenti, le politiche monetarie restrittive iniziano a mordere solo ora.

Non è un caso che le previsioni di crescita per le nostre economie siano nelle settimane scorse state riviste al ribasso. Chi difende la stretta monetaria argomenta che, indipendentemente dalla natura dell’inflazione e dai ritardi di trasmissione, lasciar correre i prezzi può innescare aspettative di inflazione futura e una spirale prezzi-salari. Questo argomento non ha molto fondamento: infatti, non siamo negli anni Settanta, e i salari non si adeguano rapidamente all’inflazione. Inoltre, i mercati, mostrando di essere molto più lungimiranti di molti economisti, non hanno mai pensato che l’inflazione potesse persistere una volta venuti meno i fattori contingenti che l’avevano causata; anche quando si era ai massimi, nell’autunno 2022, le aspettative di inflazione a medio termine non sono aumentate significativamente.

Ben più robusto è il secondo argomento in favore della restrizione: l’aumento dei tassi raffredda la domanda e quindi riporta comunque l’inflazione sotto controllo, indipendentemente dalla sua natura. Questo è certamente vero. Ora che l’aumento
dei tassi inizia a mordere si vede l’impatto negativo sulla domanda che, inevitabilmente, eserciterà una pressione al ribasso sui prezzi. Tuttavia, il rischio (la quasi certezza, in realtà) è che il costo della restrizione monetaria in termini di crescita si riveli eccessivo. È come se si usasse una clava per schiacciare un moscerino. Certo, la bestiola finirebbe male, ma sicuramente verrebbe rovinata anche la parete.

NON DANNEGGIARE L’INVESTIMENTO NELLA CONGIUNTURA ATTUALE

Molti commentatori, come è logico, si concentrano sui rischi di recessione dei prossimi mesi. Pochi sottolineano i costi, ben maggiori, che rischiano di materializzarsi nel lungo periodo. L’aumento dei tassi, infatti, riduce l’investimento che non è solo domanda corrente di beni e servizi, ma anche costruzione della capacità produttiva futura. Minori investimenti oggi, insomma, significano minore accumulazione e minore capacità di produrre domani. Dopo la crisi del 2008 l’investimento è rimasto stagnante per più di un decennio, per ripartire con vigore solo dopo la pandemia. È fondamentale che questo rimbalzo non sia soffocato, perché per ricostituire uno stock di capitale (pubblico e privato) eroso da anni di insufficiente accumulazione serve un lungo periodo di investimenti sostenuti. Inoltre, se si considerano i bisogni legati alla transizione ecologica, non ci si potrà limitare a ricostituire lo stock di capitale passato. Non solo perché le nuove tecnologie hanno un’alta intensità di capitale; ma anche perché molte delle energie rinnovabili hanno altissimi costi di installazione e bassi costi di funzionamento, per cui i bisogni di finanziamento saranno particolarmente elevati nel breve-medio periodo.

Infine, un investimento insufficiente potrebbe ostacolare la ricomposizione settoriale della produzione. Il cambiamento delle abitudini di consumo causato dalla pandemia e i cambiamenti strutturali legati alle transizioni ecologica e digitale, necessitano un’importante riallocazione del capitale tra settori. Il capitale non è fungibile e la riallocazione implicherà distruzione di capacità produttiva in alcuni settori e costruzione in altri. Per favorire questa ricomposizione, dunque, saranno necessari investimenti importanti.
Nel 2013 l’economista di Harvard Dani Rodrik criticò la scelta di imporre alla Grecia riforme e austerità simultaneamente: in condizioni normali, sosteneva Rodrik, le riforme rendono più facile la distruzione di risorse in settori meno produttivi e la creazione in settori ad alto valore aggiunto.

In un contesto di crescita stagnante la domanda per i settori più dinamici potrebbe non essere sufficiente ad indurre le imprese a investire, per cui le risorse distrutte nei settori meno produttivi potrebbero non essere ricreate altrove e gli effetti positivi delle riforme sulla produttività potrebbero non materializzarsi. Qui siamo in un caso analogo: comprimendo la domanda globale in un momento in cui per motivi contingenti (la riorganizzazione post pandemica) e strutturali (la transizione ecologica) il bisogno per l’economia di riallocazioni settoriali è particolarmente acuto, le banche centrali rischiano di ostacolare le trasformazioni strutturali necessarie per una crescita robusta e sostenibile.
Non si tratta di considerazioni astratte.

Due economisti della Federal Reserve di San Francisco hanno recentemente studiato decine di episodi di restrizione monetaria nei paesi avanzati, trovando un impatto negativo e significativo sulla crescita potenziale ancora dieci anni dopo l’aumento dei tassi. Un effetto, peraltro, non simmetrico: la restrizione danneggia la crescita potenziale, ma politiche espansive non la stimolano. Un altro lavoro, presentato al simposio annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole nell’agosto scorso, mostra che l’aumento dei tassi riduce la domanda aggregata, e la profittabilità degli investimenti; per questa via, questo influenza negativamente la spesa per Ricerca e Sviluppo, l’investimento in venture capital, e quindi la crescita potenziale.

MENO INFLAZIONE OGGI PER PIÙ INFLAZIONE DOMANI?

Insomma, una restrizione monetaria eccessiva rischia non soltanto di rallentare la crescita nel breve periodo, ma anche di comprimere la capacità produttiva nel lungo periodo e di ostacolare la riorganizzazione settoriale, perpetuando i colli di bottiglia.
Inoltre, ostacolando la transizione verso le rinnovabili, l’aumento dei tassi rischia di tenere alti i prezzi a causa del mancato abbandono delle energie fossili. È reale il rischio che la lotta all’inflazione di oggi sia pagata con un’inflazione più elevata domani.

SFIDE MULTIFORMI RICHIEDONO UNA PLURALITÀ DI STRUMENTI

Cosa andrebbe fatto, allora? Come notato sopra, il tasso di inflazione aggregato nasconde molteplici situazioni di eccesso di domanda e di offerta a livello settoriale che hanno radici diverse e richiedono misure di contrasto diverse. Alla clava della politica monetaria, che con i tassi di interesse impatta tutti i settori allo stesso modo, si dovrebbe preferire il fioretto della politica di bilancio che può operare in maniera più mirata (e non necessariamente aumentando il deficit): controlli di prezzo temporanei nei settori meno concorrenziali e in cui ci sono rendite di posizione, incentivi dove i colli di bottiglia sono dovuti a capacità produttiva insufficiente, politiche attive del lavoro quando il problema è l’offerta di manodopera, sostegno ai redditi per coloro più colpiti dall’inflazione, e via di seguito. La lezione per affrontare le sfide future è quindi chiara: in un mondo complesso, è importante che si abbandonino i paraocchi ideologici e si utilizzino senza preconcetti tutti gli strumenti disponibili.