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24 FEBBRAIO 2022: QUALI LE IMPLICAZIONI PER L’ITALIA?

Il 24 febbraio 2022 è un giorno tragico per tutti. Quali sono le implicazioni per l’Italia?

 

Con un discorso alla nazione pronunciato alle prime ore del mattino del 24 febbraio Vladimir Putin ha annunciato l’attacco all’Ucraina. Subito si sono avvertite esplosioni in diverse città ucraine non solo a ridosso del Donbass ma anche a Odessa, Kharvik, Mariupol, Leopoli, Kramatorsk.

Ora si combatte praticamente in tutto il paese, la guerriglia e l’esercito ucraini oppongono resistenza mentre le forze russe cercano di impossessarsi dei punti strategici del paese sia a livello militare, ma anche economico e politico. L’Unione Europea e l’Occidente rispondono con sanzioni economiche per isolare la Russia e fare pressione sul Cremlino per una de-escalation, ma anche con l’invio di materiale umanitario e, per la prima volta, bellico.

 

Abbiamo chiesto a Paolo Magri, Vice presidente Esecutivo di ISPI, di aiutarci a comprendere cosa stia accadendo e quali siano le implicazioni per il nostro Paese.

 

 

D: La prima domanda è: tutto questo era prevedibile? Quali sono le origini di questa invasione, apparentemente ina­spettata?

 

Il 24 febbraio scorso, la Russia ha dato inizio alla sua “operazione militare speciale” (in Russia chiamare la guer­ra “guerra” può portare ad una pena fino a 15 anni di carcere) nell’incredu­lità generale, inclusi i circoli politici ed economici russi e ucraini. In questi giorni circola uno scherzo su Twitter: gli unici ad aver predetto l’invasione russa (oltre ai servizi segreti ameri­cani, smentiti spesso dallo stesso pre­sidente ucraino Volodymyr Zelensky) sarebbero stati…i Simpson.

 

Proprio così: alcuni user sui social media han­no paragonato il conflitto in Ucraina a un episodio del 1998 della famosa serie americana, intitolato “Simpson Tide”. In esso, Homer spara acciden­talmente al capitano di un sottoma­rino russo durante un’esercitazione militare, spingendo la Russia (che in realtà non aveva mai smesso di essere l’Unione Sovietica) a schierare truppe e carri armati nelle strade e riporta­re istantaneamente il muro di Berli­no. Ma potevamo davvero prevedere questa invasione? Guardando indietro, scopriamo che qualche segnale Vladi­mir Putin l’aveva mandato.

 

La retorica infuocata contro l’allargamento della NATO e l’“unipolarismo statunitense” ha caratterizzato il discorso politico del Cremlino almeno dal 2007, anno in cui Putin pronunciò il suo celeber­rimo discorso durante la Conferenza di Sicurezza di Monaco. Nel discorso, il presidente russo essenzialmente diceva che la Russia non si sarebbe più accontentata di avere un ruolo da spettatrice mentre gli Stati uniti impo­nevano la loro influenza e i loro valori nel suo “vicinato”. E probabilmen­te avremmo anche dovuto prendere maggiormente sul serio l’annessione della Crimea (tutto sommato pacifica, ma del tutto illegittima) come segnale evidente di quanto l’Ucraina pesasse nella strategia politica russa.

 

Pesa la relazione bilaterale tra Kiev e Mosca: una relazione spesso tesa, incentra­ta su una comune origine storica (la Russia sarebbe nata, secondo una popolare interpretazione storica, pro­prio lì, in quella che oggi è Kiev), tanto che Putin ha descritto russi e ucraini come facenti parte dello stesso popo­lo.

 

Pesa il ruolo di Kiev nella strategia regionale di Mosca: la Russia che, nei secoli, ha sempre mantenuto un ruo­lo egemone nella sua regione, si trova adesso a “perdere” un tassello fonda­mentale nella sua strategia economica ed energetica (non dimentichiamo che l’Euromaidan, le proteste da cui ebbe origine il conflitto nel 2014, iniziò pro­prio perché l’Ucraina si trovò costretta a scegliere tra l’integrazione con l’UE e l’entrata nell’Unione economica eu­rasiatica).

 

Pesa la competizione geo­politica internazionale e soprattutto con gli USA, accusati da Mosca di aver aizzato ed armato gli ucraini contro i russi. Tutti gli ingredienti di questo conflitto erano visibili da tempo.

 

Forse non abbiamo voluto vederne la gravità o forse non potevamo concepire che Mosca si sarebbe spinta tanto oltre per difendere quelli che percepisce come i propri interessi – o forse, più sempli­cemente, per mantenere quello che rimane della sua influenza.

 

 

D: L’Occidente si è schierato subito con­dannando l’attacco russo e mettendo in attivo progressivamente delle sanzioni economiche. Si è molto discusso sul fatto che la Russia si fosse preparata a resistere alle ritorsioni economiche oc­cidentali, eppure forse il Cremlino non si aspettava una risposta così massiccia con effetti quasi immediati. Che cosa è successo esattamente? Per quanto può resistere la Russia sotto il peso delle sanzioni?

 

 

Relativamente poco tempo è passa­to dall’imposizione delle sanzioni più gravi che l’UE abbia mai imposto alla Russia e già stiamo iniziando a vedere effetti considerevoli sull’economia e sullo stile di vita dei russi. Ciò è com­prensibile: queste sanzioni non hanno precedenti e, oltre all’effetto shock, si prevede che avranno un grande impat­to sistemico e di lunga durata sull’e­conomia russa.

 

È importante ricordare che si tratta di sanzioni finanziarie. I paesi stanno valutando la possibilità di fermare le vendite di petrolio e gas russo, ma le sanzioni che sono state comminate finora colpiscono princi­palmente il sistema finanziario russo, attraverso per esempio l’esclusio­ne delle banche russe dal sistema di messaggistica bancaria SWIFT e le re­strizioni alla capacità della banca cen­trale russa di condurre transazioni con banche occidentali.

 

Queste sanzioni rendono difficile per le banche russe ottenere e concedere prestiti, elabo­rare pagamenti, ottenere valuta estera e così via. Finora sta funzionando: il rublo è ai minimi storici, svalutatosi di almeno il 30%; le banche russe stanno chiudendo filiali estere e ci sono molti altri segni di stress nel sistema. Molto visibile è anche l’isolamento interna­zionale del Paese, evidente non solo nell’interruzione di programmi di co­operazione (tra università, così come tra musei), ma anche nella decisione di grandi aziende straniere di lasciare la Russia.

 

Quest’ultima decisione non comporta solo “meno glamour” nello stile di vita dei russi o la comparsa di strane catene russe che rimpiazzano quelle occidentali (tipo “Zio Vanya” che va a sostituire il McDonald’s); qui ci sono in ballo anche molte migliaia di posti di lavoro solo parzialmente recu­perabili attraverso la nascita di nuove aziende russe. Quanto potrà durare tutto questo? Quanto potrà resistere l’economia russa? Difficile dirlo. Negli ultimi 15 anni, i russi si sono abituati a vivere una vita ragionevolmente con­fortevole. È una società dei consumi profondamente integrata dal punto di vista economico e culturale con l’Eu­ropa.

 

Ora, all’improvviso, ai russi viene chiesto di tornare all’isolamento eco­nomico, alle carenze e alle difficoltà degli anni ’90, o addirittura dell’URSS, quasi da un giorno all’altro. È questa la ragione per cui molti analisti scom­mettono su un moto di ribellione della popolazione se le cose continuasse­ro così o peggiorassero.

 

Sempre che qualche paese amico non venga in aiu­to del governo russo per tamponare gli effetti più nefasti delle sanzioni…

 

 

D: Altro protagonista nello scacchiere globale è la Cina: dapprima il compor­tamento del colosso asiatico poteva essere interpretato come un moderato appoggio alla Russia, poi l’astensione durante sessione dell’ONU. Qual è il ruolo di Pechino in questa guerra? Cosa possiamo dire dell’ “abbraccio energe­tico e finanziario” che si sta stringendo sempre più tra Russia e Cina? Di quali prossime alleanze e visione del mondo è foriero?

 

 

La Cina appare l’amico più potente rimasto ormai alla Russia. Eppure, continua ad adottare un approccio attendista, rifiutandosi di schierarsi nettamente a favore di una o dell’altra parte del conflitto. Da un lato ha ottimi rapporti con l’Ucraina.

 

Oltre all’asten­sione in sede UN, Pechino ha rilasciato dichiarazioni in difesa del diritto all’au­todeterminazione di Kiev. Allo stesso tempo, però, coltiva da anni una rela­zione sempre più stretta con Mosca. Pechino ha condannato l’allargamento della NATO, contribuito a disseminare le teorie del complotto del Cremlino sulle armi chimiche statunitensi e cen­surato la discussione pubblica cinese sulla guerra. Ma quanto conviene alla Cina questa guerra?

 

Sebbene Xi abbia opposto una certa resistenza ai ten­tativi di fargli svolgere il ruolo di me­diatore in questa guerra, è chiaro che i costi di difendere il presidente russo sono sempre maggiori, soprattutto perché le sanzioni occidentali danneg­giano anche l’economia cinese. È vero che l’invasione russa dell’Ucraina e le relative sanzioni spingeranno proba­bilmente Cina e Russia ad avvicinarsi.

 

Il commercio tra i due vicini è cresciu­to da 10,7 miliardi di dollari nel 2001 a quasi 140 miliardi di dollari nel 2021 ed è destinato a crescere ulteriormen­te visto che, con i legami con l’Europa quasi interrotti, la Russia farà ancora più affidamento sulla sua amicizia con Pechino.

 

Ma i due partner commerciali principali della Cina restano gli USA e l’UE: davvero Pechino è disposta a ri­schiare la relazione con Washington e Bruxelles per sostenere una Russia sempre più debole e isolata?

 

In occasione dell’incontro a Roma tra Sullivan e Yang Jiechi e della telefona­ta tra Biden e Xi Jinping la Cina ha più volte espresso la volontà che il con­flitto termini presto. Un elemento che conferma come Pechino veda l’inva­sione russa sempre più come un costo non necessario.

 

 

 

 

La catastrofe umanitaria è già iniziata, non solo per i tanti civili coinvolti negli scontri ma anche per i numerosi pro­fughi che già hanno lasciato il Paese. Come affrontare il dramma umanitario e come questo cambierà le carte nelle priorità politiche europee?

 

L’esodo di queste settimane è qualco­sa che fatichiamo anche solo a imma­ginare. 3,3 milioni di persone hanno già lasciato il Paese: sono il 7% dell’in­tera popolazione anteguerra, come se in Italia scomparisse in tre settimane l’intera popolazione del Piemonte. E, in oltre il 90% dei casi, si tratta di don­ne e bambini.

 

Sinora l’Europa si è dimostrata estre­mamente solidale. Paesi come la Po­lonia che fino a novembre dell’anno scorso respingevano meno di 10.000 migranti mandati allo sbaraglio da Lukashenko, il dittatore bielorusso, alla frontiera polacca e a quella li­tuana, adesso si fanno carico di sfor­zi colossali.

 

In meno di due settimane l’Ue ha persino attivato la protezione temporanea, un meccanismo previsto dal 2001, dopo le guerre balcaniche, ma mai invocato in precedenza. Così le persone ucraine in fuga potranno re­stare sul territorio europeo per alme­no un anno, e poi fino a un massimo di tre anni. Potranno anche circolare liberamente, “distribuendosi” dove meglio credono.

 

Sin qui, le note positive, ma la vera sfida arriva adesso. Ciò cui abbiamo assistito è solo la prima risposta, ar­rivata anche sull’onda emotiva di una crisi sul continente europeo, neppure alle porte dell’Europa.

 

Ma già in Polo­nia si avvertono i primi scricchiolii di un sistema che fatica a ricevere tutte queste persone in poco tempo, e so­prattutto a immaginare di dar loro un futuro. Perché si tratta, appunto, in prevalenza di donne e bambini. Questi ultimi hanno bisogno di essere rapida­mente inseriti nel sistema d’istruzione per non rimanere (troppo) indietro, e tutti hanno bisogno di un sostegno per garantirsi una vita dignitosa. Di recen­te, noi di ISPI abbiamo calcolato che già a oggi i paesi UE dovrebbero im­pegnare circa 20-30 miliardi di euro di risorse aggiuntive.

 

Adesso si tratta di capire se saremo in grado di trovarli, e se l’attuale unità d’intenti tra i paesi europei non tor­nerà rapidamente a spaccarsi, tra chi fa il grosso del lavoro e dell’aiuto, e gli altri.

 

 

 

Il patto di stabilità è definitivamente da archiviare?

 

Al momento il Patto è sospeso fino al prossimo anno: una decisione resa necessaria dalla pandemia per per­mettere ai governi di sostenere le economie colpite dai lockdown. Ma la guerra potrebbe ulteriormente al­lungare i tempi.

 

L’auspicata ripresa post-Covid (oltre il 4% nel 2022) ap­pare ormai fuori portata. Lo ha am­messo anche la BCE: quest’anno la crescita potrebbe risultare fino al 2% meno del previsto. Da qui le voci su un ulteriore ritardo, anche se il Commis­sario Gentiloni ha voluto confermare l’impegno ad elaborare proposte di riforma formali entro l’estate.

 

In effetti si era iniziato a parlare di ri­forma delle regole fiscali ben prima del Covid. Queste hanno continuato ad accumularsi negli ultimi 30 anni e oggi risultano complesse, opache e in parte irrealistiche. Basti pensare all’impegno di ridurre di un ventesi­mo all’anno il divario tra il rapporto debito/Pil e la soglia del 60%.

 

Per un paese come l’Italia con un rapporto intorno al 150%, ciò si tradurrebbe in tagli di molte decine di miliardi all’an­no che inciderebbero profondamente sugli investimenti. Inclusi quelli cru­ciali per la transizione verde e digita­le e per perseguire quella ‘autonomia strategica’ su cui tanto insiste l’Ue e che la guerra in Ucraina ha ulterior­mente enfatizzato.

 

Le proposte di riforma finora avan­zate riguardano lo scorporo degli investimenti “green” (o comunque strategici) dal calcolo del deficit e/o l’ancoraggio della spesa pubblica alla riduzione del debito, fino a un “Next Generation EU 2.0”, ovvero nuovo de­bito comune per la produzione di ‘beni pubblici europei’ (sicurezza inclusa). Insomma, proposte che mirano non tanto ad archiviare il Patto ma ad ag­giornarlo rendendolo più coerente con le nuove sfide europee.

 

Ed è un bene, anche per l’Italia, che il Patto non venga sospeso ‘sine die’ e che si pensi a nuove regole. In loro mancanza manderemmo un segnale negativo ai mercati finanziari preoc­cupati dalla tenuta dei nostri conti pubblici già prima che la guerra pe­sasse sulla ripresa.