Quale impresa

Smart working al femminile

Simona Branchetti, giornalista e conduttrice del Tg5, arriva in libreria con il suo saggio dal titolo “Donne!!! È arrivato lo smart working” (Edizioni Leima): un libro che parla sì di pandemia e di cosa ha significato lavorare da casa, ma che apre una riflessione più ampia sulla situazione delle donne nel nostro Paese e dei rapporti con gli uomini.

Grazie Simona per aver accettato l’intervista. Parlando di smart working si sente spesso parlare anche di work life balance. Come vedi l’esperienza al femminile in questo anno surreale?

Come dimostrano i dati che riporto all’interno del mio libro, questa modalità di lavoro in smart working improvvisa e improvvisata si è trasformata per moltissime donne in extreme working: conciliare il lavoro con la vita privata è risultato veramente complesso, perché il carico di lavoro a cui le donne sono richiamate quotidianamente nella vita privata – tra assistenza dei figli e degli anziani, cura della casa, etc. – equivale ad un part-time di 28 ore a settimana. Questo crea difficoltà nel riuscire adeguatamente a dedicarsi a quella che è la propria attività professionale.

Insomma: lo smart working ha messo in evidenza proprio questa discrasia, questa difficoltà di gestione dei rapporti interpersonali tra uomo e donna, che ha riportato alla luce una vera e propria guerra di sessi e di ruoli che pensavamo essere ormai anacronistica, ma purtroppo ancora di fortissima attualità.

Hai parlato di modalità di lavoro “improvvisa e improvvisata”: in effetti lo smart working è un’altra cosa e la pandemia ha fatto emergere dei limiti organizzativi e culturali, a partire dalle conoscenze in ambito digital. Qual è il tuo punto di vista?

È assolutamente così. Questa rivoluzione digitale è avvenuta in tempi strettissimi: si è passati da circa 570 mila lavoratori in smart working a 8 milioni e non tutti hanno dimostrato di avere conoscenze informatiche adeguate, soprattutto le donne, che si trovano molto spesso relegate a mansioni di servizio nel terziario e con poche responsabilità di vertice e manageriali.

C’è poi una questione legata agli spazi e alla carenza di dispositivi a disposizione: non tutte sono riuscite a ritagliarsi un ambito di lavoro esclusivo, finendo per lavorare spesso in una giungla domestica con il figlio a fianco a fare i compiti o collegato in DAD e il marito immerso nelle sue attività.

Insomma: niente a che vedere con la modalità pensata dal legislatore quando ha scritto la normativa 81 del 2017 sullo smart working, la cui finalità è quella di concedere al lavoratore, attraverso un accordo con il datore di lavoro, la possibilità di operare fuori dal contesto dall’azienda ma non necessariamente da casa.

Citi spesso il retaggio culturale. Il fatto che le donne siano relegate in ruoli marginali dal punto di vista professionale è in qualche modo collegato al fatto che il nostro non è un Paese per giovani?

Una volta le donne venivano relegate a casa perché le attività industriali, nei campi e nelle fabbriche erano tendenzialmente lavori fisici e quindi maschili. L’industrializzazione e la digitalizzazione ci stanno offrendo oggi l’opportunità di usare il nostro cervello, non le nostre braccia, e di essere valutate alla pari.

Il nostro è sicuramente un paese molto anziano sotto tutti i punti di vista e continuiamo ad avere un approccio estremamente retrogrado dal punto di vista culturale.

Dobbiamo investire sui giovani, sul fatto che i nuovi ruoli dirigenziali possano e debbano andare in mano anche alle giovani generazioni e puntare anche sulle materie STEM, che oggi raccolgono solamente il 13 – 16% di preferenze tra le giovani donne. Siamo abituati a pensare che le materie scientifiche e tecnologiche siano prevalentemente da maschi, ma anche questo è qualcosa di assolutamente falso e marginale, frutto di un retaggio culturale che è fin troppo radicato nel nostro Paese.

Se guardiamo ai dati sull’occupazione femminile, vediamo che è di circa il 50% su quota nazionale – se si guarda al Sud è del 30% – contro una media europea del 60%. È evidente che in Italia abbiamo un problema culturale: le donne per cultura tendono a non lavorare o ad abbandonare il lavoro dopo il primo figlio, a causa della mancanza di quelle strutture collaterali che consentano alle donne di potersi gettare fino in fondo nella sfida professionale. Mi riferisco sia, ad esempio, ad asili e supporti, ma anche al quel tetto di cristallo che esiste soprattutto nel nostro Paese e che lascia i ruoli dirigenziale ancora fortemente nelle mani degli uomini togliendo alle donne la possibilità di un reale avanzamento di carriera.

Un altro tema che tratti nel tuo libro è quello della violenza fra le mura domestiche. Cosa è successo in questo anno e perché non è sempre facile sporgere denuncia?

Purtroppo, molto spesso i rapporti interpersonali e le relazioni si fondano su degli alterati non equilibri e durante il lock down questa situazione è esplosa e tante donne hanno vissuto l’esplosione della violenza domestica.

Rimanere in un ruolo di subalternità, anche economica, rispetto al proprio compagno mette la donna in una condizione in cui tende ad accettare situazioni anche di violenza che poi diventano incontrollabili quando appunto, come è accaduto, ci si ritrova h24 sotto lo stesso tetto.

I percorsi di aiuto e denuncia sono ancora lunghi e ad ostacoli: una donna che vuol denunciare una violenza si ritrova, come le cronache purtroppo ci raccontano con fin troppa quotidianità, a passare dalla parte della vittima a quella della complice e questo è un problema enorme.

C’è poi una forma di dubbio, di pregiudizio o di malizia con la quale una donna che denuncia viene vista anche dalle persone che le stanno intorno, in primis dalla famiglia, situazione che si può risolvere solo diffondendo una cultura che non sia quella della differenza e della diversità, ma della parità e dell’eguaglianza.

Riusciremo a colmare il gender gap?

Se guardo al Recovery Fund, le risorse che sulla carta sono destinate a colmare il gender gap sono ancora un po’ risicate.

Credo che se sia importante investire nel creare delle strutture (magari sostenute dallo Stato) anche all’interno delle aziende sia pubbliche sia private in modo da vigilare sulla possibilità che alle donne siano riconosciute le stesse possibilità dei colleghi uomini, cioè una carriera meritocratica.

Vanno create delle strutture di sostegno in modo che le donne che decidono di fare figli non debbano scegliere tra la maternità e la professione, ma possano essere anche supportate nei loro percorsi professionali.

Credo che sia importante che le donne possano competere ad un pari livello e con pari strumenti rispetto agli uomini, anche dal punto di vista del riconoscimento salariale, altrimenti ci saranno sempre delle differenze.

In una frase: dovremmo cambiare approccio e pensare a un mondo per le persone e non per i maschi e per le femmine.