Quale impresa

NOW OR NEVER: LA GUERRA FINANZIARIA DELLE IMPRESE ITALIANE E L’IMPRESA DI CAPITALIZZARSI

Intervista a Stefano Caselli, Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari e Prorettore per gli Affari Internazionali presso l’Università Bocconi

 

D: A seguito dei recenti sconvolgimenti economici e geopolitici, molte PMI dovranno prepararsi a una volatilità prolungata. Il dramma della guerra e le conseguenze inflazionistiche richiedono uno slancio da parte delle imprese e da parte di chi effettua scelte di politica economica. Durante questo periodo, le PMI saranno sfidate a trasformare la loro catena di approvvigionamento per proteggersi dalle interruzioni in corso, a rimanere agili in tempi incerti, a cercare modi per gestire il rischio nei loro processi commerciali e migliorare la liquidità per resistere alla tempesta.

R: Partendo dagli effetti della guerra sui mercati finanziari globali e dalle reazioni degli investitori, abbiamo analizzato le strade percorribili e le possibili scelte delle imprese e della politica fiscale italiana con Stefano Caselli, Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari e Prorettore per gli Affari Internazionali presso l’Università Bocconi. Nell’ambito di attività internazionale ricopre diversi ruoli fra cui: membro dello Steering Committee di CIVICA, membro del management board del CEMS, Chair per l’EMEA Region del PIM. È autore di numerosi saggi e articoli, e le sue ricerche si concentrano sul tema generale del rapporto fra il sistema bancario e le imprese, sia nella prospettiva della concessione del credito da parte delle banche che delle scelte di finanziamento delle imprese.

 

D: In generale, qual è stato l’impatto della guerra Russia-Ucraina sui mercati finanziari globali, in termini di resilienza?

R: La visione di fondo è che i mercati abbiano retto ampiamente. Abbiamo assistito a variazioni di prezzo, usuali in momenti drammatici come questo ma, al momento, è l’economia reale quella più esposta a rischi, rispetto ai mercati finanziari che in altre occasioni hanno rappresentato la parte più debole. Tre ordini di motivi hanno consentito ai mercati di reggere l’onda d’urto e di affermarsi per la loro robustezza: il primo è che nel mercato finanziario abbiamo una schiera di banche ipercapitalizzate e solide, poiché da anni si lavora sulla capitalizzazione degli intermediari finanziari per garantire più solidità e stabilità al mercato finanziario. Nel 2007 e nel 2011, invece, il mercato aveva fatto leva sulla debolezza delle banche, che oggi non si manifesta.

Il secondo motivo è l’ingente quantità di liquidità presente nel mondo che funge da ammortizzatore dato che, attualmente, gli investitori riconoscono difficoltà ad allocare il loro denaro. Questo paradosso, tuttavia, serve da ammortizzatore al mercato.

La terza ragione riguarda l’uscita da una politica di deficit spending e di crescita del debito pubblico che ha alterato i parametri di equilibrio della finanza pubblica. Il costo di ciò lo pagheremo tra qualche anno. Queste tre categorie di fattori consentono ai mercati finanziari di godere di solidità e stabilità, ed evitano una crisi che sarebbe indubbiamente distruttiva per tutti, in questo momento.

 

D: Come reagiscono gli investitori all’incertezza dei mercati finanziari globali? Ci si aspetta maggiormente casi di ‘ flight-to-quality’ e di ‘flight-to-capital’?

R: Il mercato ‘flight-to-equity’ era già in atto: l’essere reduci da un periodo con tassi di interesse flat, tassi reali negativi, debito esposto a rischi di downside come l’equity, rappresentavano segnali evidenti che il mercato si stava già spostando verso l’equity.

In un momento di crisi ulteriore il mercato ancora di più guarda all’economia reale, ad investimenti ancorati a progetti reali e ricerca ancora di più rendimenti long-term. Contribuisce a questo contesto anche la com- ponente trasversale della sostenibilità: gli investitori guardano all’equity perché vogliono investimenti long-term, con rendimenti reali positivi, non senza limiti sull’upside, a differenza del debito. Questa dimensione di sostenibilità è il filone d’oro che si vuole ricercare al momento.

 

D: Come le istituzioni finanziarie dovrebbero reagire al possibile credit crunch?

R: Sicuramente il problema del credit crunch lo si sta rimandando da tempo poiché, già durante il Covid, abbiamo assistito ad una politica di helicopter money da parte degli stati, che hanno sostenuto in vita tutti indistintamente, e che hanno conseguentemente posticipato un eventuale tema di NPL e di credit crunch. Questa volta, però, il credit crunch è sulle spalle delle imprese e non delle banche. Per le imprese l’azione di capitalizzazione non può più essere procrastinata: hanno sicuramente ricevuto una grande protezione, giusta e giustificata, durante il Covid.

Ora, nei limiti del possibile, verranno protette dallo scenario di guerra, per calmierare i prezzi dell’energia. Tuttavia, esse devono necessariamente rispondere capitalizzandosi, poiché non ci sono altre alternative e le banche saranno sempre meno inclini ai prestiti. Basti fare un confronto con i mercati anglosassoni, dove il 30% è rappresentato dal credito, mentre il 70% dalla finanza di mercato: in Europa avviene esattamente il contrario.

Consce di quello che dovrebbe essere il punto di arrivo, le imprese italiane dovrebbero maturare la consapevolezza di compiere questo passo, ora o mai più, e di dedicare parte della loro ricchezza per capitalizzare le proprie aziende. Analizzando i dati, le famiglie italiane posseggono 4,800 miliardi di euro di ricchezza finanziaria, più del doppio del Pil. È il momento di trasferire parte di questa ricchezza nelle aziende italiane e migliorare conseguentemente anche il rating delle stesse, la loro capacità di ottenere credito e di ridurre tensioni sulle garanzie.

 

D: La Russia è il terzo produttore mondiale di petrolio, il secondo produttore di gas naturale ed è tra i primi cinque produttori di acciaio, nichel e alluminio, oltre ad essere anche il principale esportatore di grano al mondo. Dal canto suo, anche l’Ucraina ricopre posizioni di rilievo nell’agroalimentare. Qual è stato l’effetto delle sanzioni economiche e finanziarie sui commodity markets e come lo shock dei prezzi delle materie prime sta impattando i mercati emergenti?

R: Alle sanzioni non c’erano, purtroppo, molte alternative: nel momento in cui uno Stato dichiara guerra ad un altro Paese, un Paese civile reagisce ragionevolmente con delle sanzioni. Gli effetti di queste ultime rappresentano il costo che dobbiamo pagare. Osservando la storia ed evitando ogni polemica politica, è chiaro che l’Italia, così come gran parte dei Paesi europei, sia intrinsecamente legata alla Russia e paghi il conto di scelte politiche sbagliate sul campo dell’energia.

Il primo passo da compiere è quello di individuare mercati alternativi, fornitori ed effettuare scelte pragmatiche come la ricerca di accordi con Paesi come l’Algeria, siglata da Mario Draghi.

In secondo luogo, vanno riconsiderate scelte passate, quali i rigassificatori, il nucleare, una strategia di rinnovabili più decisa e l’estrazione di metano sul territorio italiano. La terza considerazione riguarda il Pnrr, che rappresenta un percorso molto potente di accelerazione della transizione energetica.

Infine, l’Europa dovrebbe riflettere sulla possibilità di creazione di un mercato unico dell’energia: singolarmente, diversi Paesi europei sono squilibrati dal punto di vista di fabbisogno e produzione di energia, ma un’Europa unita nella sua politica energetica permetterebbe il raggiungimento di un equilibrio decisamente più stabile e autosufficiente. Penso sia arrivato il momento di parlare anche di questo.

 

D: Molte imprese italiane hanno già sofferto il debito elevato a causa della pandemia e la guerra e le successive sanzioni hanno causato un’impennata dell’inflazione e un aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, aggravando le loro sfide finanziarie. Cosa dovrebbero fare le PMI per difendersi dalla situazione attuale e sostenere disruptions future?

R: A fronte di sconvolgimenti geopolitici ed economici come quelli che stiamo vivendo, gli imprenditori si trovano a subire anche tanta speculazione. Le imprese dovranno indubbiamente sostenere un costo, così come i cittadini e il governo. Ciò che può proteggere le aziende è una considerevole azione strategica del nostro governo, decisa nel cercare fonti di approvvigionamento alternative e riaprire dossier che erano stati chiusi.

Dall’altro lato, vanno considerati i limiti, soprattutto in materia di debito pubblico, di quest’ultimo nella propria azione di scudo alle aziende: qui si apre una contestazione agli imprenditori che, a maggior ragione dopo la vicenda dell’Ucraina, devono potersi sostenere di fronte ad imprevisti non solo al genio imprenditoriale, ma ad una più elevata capitalizzazione.

Siamo il Paese in Europa con meno grandi imprese in assoluto e ciò costituisce un elemento di grande fragilità del sistema: le piccole imprese sono preziose, ma abbiamo bisogno anche delle grandi e grandissime imprese per rafforzare la solidità del tessuto imprenditoriale, così come avviene in Francia, in Germania e persino in Spagna.

Un altro dato da considerare è che nella Fortune Global 500, l’Italia non annovera nessuna azienda privata: ci sono tre intermediari finanziari e tre aziende pubbliche. Pertanto, abbiamo assoluta necessità di combinare la creatività e la flessibilità delle aziende italiane ad una maggiore capitalizzazione, nei limiti del possibile. Nel sistema persiste una quantità smisurata di liquidità da parte degli investitori, eppure le realtà italiane sembrano più inclini a raccogliere prestiti dalle banche, che richiedono garanzie per via di una ormai consolidata regolamentazione bancaria. Quello delle banche è un rubinetto che si sta chiudendo e non avrei dubbi ad attingere, invece, al fiume di liquidità che gli investitori non sanno dove allocare.

È ormai imperativo: le aziende italiane non possono restare tutte piccole!

 

D: La ‘ flight-to-quality’ ha lasciato molte imprese meritevoli, in particolare le PMI, con opzioni limitate per il finanziamento. Le società più piccole spesso non sono in grado di dimostrare l’affidabilità creditizia. Alcuni possono anche ricorrere all’autofinanziamento. Cosa ne pensa a riguardo?

R: Se per finanza alternativa intendiamo il ricorrere a strumenti di Private equity, confermo una posizione totalmente a favore, rientrando a far parte di un percorso di capitalizzazione. In Italia e in tutto il mondo, uno dei parametri più sensibili per modificare il rating della propria azienda, è il livello di capitalizzazione. Quindi, non avrei dubbi: se un imprenditore oggi mi chiedesse cosa fare per migliorare il proprio rating, la risposta è ridurre la leva finanziaria. Questo è un messaggio che va assolutamente veicolato.

Gli strumenti di finanza alternativa non devono essere una scappatoia, se pensiamo, soprattutto, alle piattaforme di Peer to Peer Lending. È chiaro che queste ultime possano essere più veloci di una banca e possono anche essere integrate come complemento; non rappresentano, però, la soluzione di tutto. Soprattutto, va considerato che spesso tali piattaforme richiedono un tasso superiore al doppio di quello proposto da una banca, e risultano strumenti più difficoltosi rispetto ad una raccolta di equity.

Dunque, se per finanza alternativa intendiamo private equity e private debt, mi espongo indubbiamente a favore, essendo strumenti che concedono maggior robustezza e che apportano una serie di vantaggi quali certificazione di qualità, maggiore visibilità e un rafforzamento del potere negoziale con le banche. Ovviamente, ci sono poi varie considerazioni da avanzare sulla scelta cautelata del proprio investor, essendo i private equity estremamente diversi gli uni dagli altri, a differenza del credito.

Possiamo, quindi, riassumere tre possibili livelli: la capitalizzazione della propria impresa, il tema di accogliere equity investor e, infine, il mercato di borsa. Non sono assolutamente tutti e tre passaggi obbligati, ma vanno adeguati al percorso, alle competenze e alle potenzialità delle singole aziende. A fronte di quanto detto, le imprese italiane potrebbero avanzare proposte al governo che vadano nella direzione di coltivare un terreno fiscale che agevoli la capitalizzazione, che incentivi lo sviluppo dimensionale e l’apertura del capitale. Considerando le future risorse limitate del governo e il notevole debito pubblico italiano, è improbabile auspicare ad una fiscalità aggressiva. Se dovessi giocare questa partita, dunque, non esiterei a puntare sulla carta di una fiscalità che sostenga e premi la capitalizzazione.