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L’INNOVATORE RAMPANTE: COMPETENZE E MINDSET PER IL CAMBIAMENTO

Rettore dell’Università Luiss Guido Carli, il Professor Andrea Prencipe ha firmato, con l’editorialista Massimo Sideri, una rilettura delle Lezioni americane di Italo Calvino per offrire nuove chiavi di interpretazione e applicazione dell’innovazione.

 

D: Professore, di cosa parliamo quando parliamo di innovazione?  

R: Fondamentalmente parliamo di cambiamento che genera valore. Il cambiamento può essere di qualsiasi natura, così come il valore. Spesso, infatti, quando parliamo di innovazione siamo indotti a pensare solo al cambiamento tecnologico, in verità l’innovazione riguarda cambiamenti organizzativi, dei comportamenti… Così come il valore che viene generato dal cambiamento non è solo economico-finanziario, ma può avere – e deve sempre più avere – valore sociale, valore personale e per la comunità.

Quindi quando parliamo di innovazione non possiamo parlare di cambiamento fine a sé stesso. E visto che il cambiamento può essere di qualsiasi natura, mi piace definire l’innovazione come un processo di specializzazione despecializzata.

D: Un ossimoro, proprio nello stile di Italo Calvino… Quali sono le condizioni e le competenze necessarie per innovare all’interno di un’azienda?

R: L’innovazione non alligna soltanto nelle aree tecniche, ma può essere contestualizzata in tutte le aree. Quindi in un’organizzazione o in un’impresa, l’innovazione sicuramente farà riferimento all’area della ricerca e sviluppo, ma può far capo anche alle risorse umane, piuttosto che alle aree della finanza, dell’internazionalizzazione o del marketing.

Un’organizzazione di qualsiasi tipo, pubblica o privata, quindi da una parte dovrà tenere presente le competenze necessarie per innovare, ma soprattutto dovrà cercare di affinare l’approccio mentale, un “mindset” innovativo. Perché l’innovazione per definizione è un fenomeno trasversale, nel senso che richiede capacità legate al saper connettere mondi diversi.

D: Pensando alle imprese italiane, soprattutto alle PMI, quali sono i profili che vanno ricercati e costruiti?

R: Non si può prescindere dalle competenze se si vuole innovare, però per innovare non bastano solo le competenze. L’innovazione rappresenta la vera leva competitiva, ecco perché è importante coinvolgere profili che sappiano andare oltre i confini della propria impresa, della propria organizzazione e che sappiano guardare alle potenziali partnership, ad esempio, per cambiare le regole del gioco in un settore industriale.

D: Da qualche tempo, ormai, si parla di open innovation. Quanto è importante che le aziende si aprano a questo paradigma?

R: L’innovazione aperta, sviluppata anche grazie al Professor Henry Chesbrough negli ultimi vent’anni, non è solo oggetto di studio, ma è anche l’approccio con il quale l’Unione Europea finanzia i programmi di innovazione. Quindi le imprese, soprattutto le piccole e medie, che hanno grandi potenzialità di innovazione, devono sicuramente equipaggiarsi con le competenze, ma anche e soprattutto con i profili che mostrano quella abilità nel saper connettere puntini, tecnologie e paradigmi.

L’innovazione, infatti, si troverà sempre di più nelle intersezioni, e dunque senza appiattirsi sulla cosiddetta sindrome del “non è stato inventato qui” bisogna capire se e come, facendo riferimento ad altri settori, ad esempio, è possibile trovare nuove ispirazioni, mettendo insieme competenze ed esperienze diverse, in maniera virtuosa.

D: Professore, ma è sempre necessario innovare e quando invece diventa indispensabile?

R: Le aziende devono essere pronte ad innovare, anzi dovrebbero provare ad anticipare il cambiamento attraverso l’innovazione. La tempistica varia nei vari settori industriali e in alcuni casi innovare significa anche mantenere la propria posizione.

L’Italia da questo punto di vista è un esempio fantastico di Paese popolato da imprese caratterizzate da un’incessante ricerca e creazione di innovazione, penso al farmaceutico o alla meccanica di precisione, e da aziende che fanno innovazione per mantenere la propria produzione, radicata nei secoli, come quelle nel settore del Made in Italy.

L’arte di innovare, infatti, è bella proprio per questo motivo: perché racchiude in sé la capacità di spingere in avanti la frontiera del cambiamento, ma spesso e volentieri di riscoprire il passato. Ecco perché innovare ha una duplice valenza, da una parte creare il futuro, dall’altra scoprire il passato. Ciò significa gestire questo connubio virtuoso tra tradizione e futuro, tra passato e presente.

D: In questa tensione si inserisce il libro “L’innovatore rampante. L’ultima lezione di Italo Calvino”, firmato da lei e da Massimo Sideri, con la prefazione di Luciano Floridi, edito da Luiss University Press. Come nasce questa idea?

R: Fondamentalmente da due passioni che condivido con Massimo Sideri: da una parte lo studio e l’osservazione del fenomeno innovazione, dall’altra le opere di Italo Calvino. Così abbiamo deciso di rileggere insieme le Lezioni americane che sono state per me una fonte continua e incessante di ispirazione per scrivere, pensare e ripensare il fenomeno dell’innovazione.

Lo stesso Calvino è stato un grande innovatore di metodi, stili, parole e approcci, giocando sugli opposti. Il metodo Calvino è proprio nella tensione ossimorica che spinge a riflettere sulla natura dei processi innovativi che devono essere rapidi e, allo stesso tempo, tener presente la lentezza del progresso scientifico.

D: Come nel recente caso dei vaccini contro il Covid-19, citato nel libro…

R: Esattamente. Tutti ci siamo meravigliati della rapidità di come le grandi case farmaceutiche siano riuscite a portare sul mercato il vaccino contro il Covid-19, ma ai meno attenti sono sfuggiti tutti gli sforzi fatti a livello accademico, dalle aziende, e le conoscenze scientifiche di base che hanno permesso lo sviluppo di un vaccino per arginare la diffusione del virus. Ovviamente il processo scientifico è lento mentre l’innovazione richiede rapidità per cogliere tutte le opportunità.

In questo caso, l’innovatore deve essere esatto nella condivisione e nella comprensione dei codici che caratterizzano le varie comunità scientifiche che sono alla base dello sviluppo della miriade di tecnologie di cui abbiamo necessità per sviluppare nuovi servizi. Allo stesso tempo deve essere consapevole che ciascuna comunità scientifica e tecnologica parla linguaggi diversi, si esprime attraverso codici di comunicazione diversa. Quindi deve cercare di essere il più esatto possibile in un mondo di inesattezze.

D: Un altro capitolo del libro, particolarmente interessante per i giovani imprenditori, è la lezione sulla “visibilità”, intesa come capacità di immaginare nuovi mondi e nuove relazioni. Perché è così importante per Calvino e, dunque, per l’innovazione?

R: L’immaginazione è fondamentale per l’innovatore. Lo stesso Albert Einstein sosteneva che l’immaginazione è più importante della conoscenza poiché “non si può risolvere un problema con lo stesso pensiero utilizzato per crearlo, è necessario un nuovo pensiero”.

Abbiamo la necessità di educare i bambini, le bambine, gli studenti e le studentesse all’immaginazione, e la rilettura di questa pedagogia dell’immaginazione mi ha fatto pensare ad un altro libro, la “Grammatica della fantasia” di Gianni Rodari, nel quale si fa spesso riferimento alla necessità di mettere a confronto i due opposti per far scattare la scintilla creativa dello scrittore. Guarda caso è lo stesso meccanismo di cui parla Calvino, che aveva già capito l’importanza del software rispetto all’hardware, sottolineando che bisogna sempre fare affidamento su entrambi per innovare. Ecco, queste ulteriori chiavi di lettura hanno rappresentato per noi gli elementi per scrivere questo “vademecum” dell’innovatore.

D: Dal suo punto di osservazione, quale ruolo gioco l’Italia nelle prossime sfide dell’innovazione?

R: Come sottolineato anche nel libro, con case history su innovazioni perseguite e portate sul mercato dalle imprese italiane e internazionali, esiste e deve esistere una politica per l’innovazione in un Paese come l’Italia, ovviamente declinata e caratterizzata in chiave europea.

Facciamo parte di una grande regione, al centro del cosiddetto Euro-Mediterraneo, e non possiamo pensare di non avere un ruolo da protagonisti o di non sviluppare delle politiche per l’innovazione che guidino lo sviluppo delle piccole, medie e grandi imprese, così come delle organizzazioni che fanno parte del grande eco-sistema dell’innovazione, quali le università, i centri di ricerca, la pubblica amministrazione… Tutti devono essere attori protagonisti dell’innovazione.

D: Cosa suggerirebbe ad un leader o un imprenditore, magari con una storia aziendale di successo, che si trova al bivio dell’innovazione: cambiare o lasciare tutto invariato?

R: Il consiglio è quello di provare a immergersi sempre in condizioni sfidanti. Per far questo è importante creare situazioni di apprendimento. Mi spiego meglio: per essere pronti al cambiamento, per non adagiarsi sui successi del passato, è importante cercare situazioni nelle quali e attraverso le quali ciascuno possa sentirsi sfidato. Ciò significa mettersi pressione, ma con un approccio positivo. Le competenze rappresentano una dimensione fondante dell’innovazione, ma bisogna acquisire quel guizzo, quell’approccio al rischio, senza farsi trascinare dal modo in cui sono stati risolti i problemi del passato, bensì ripensando alle regole che caratterizzano, ad esempio, il comparto in cui si opera.

Spesso quando parliamo di innovazione sembra sempre di dover pensare al di fuori della scatola, il cosiddetto thinking outside the box, in realtà significa ripensare la scatola, rethinking the box.

Marcel Proust sosteneva che il vero viaggio della scoperta non risiede nell’identificazione di nuove mete, ma nell’avere nuovi occhi. E per avere nuovi occhi bisogna avere un approccio innovativo.

Per questo motivo lavoriamo perché studenti e studentesse diventino “generalisti specializzati”, cioè possano acquisire competenze, quindi specializzarsi in un’area, e mantenere una visione d’insieme che permetta di comprendere, dialogare e valorizzare i contributi di altri attori.