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FATTORE ARTS, PER UN NUOVO RAPPORTO TRA L’UOMO E LE MACCHINE

Giuseppe Italiano, docente di Computer Science alla Luiss Guido Carli, sostiene l’importanza di considerare le Arti, ossia la dimensione più generale dell’umanesimo, tra le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), per algoritmi a misura d’uomo e giovani future-ready.

 

Professore, partiamo da un dato: l’anno prossimo più del 40% delle ore di lavoro sarà svolto da macchine. Non le chiederò che mestiere farà allora l’uomo, ma in che modo e perché stiamo andando in questa direzione? Qual è il valore di questo ‘traguardo’ e quali i rischi?

Non c’è dubbio che le macchine, e in particolare gli algoritmi che oggi ne sono i principali ingredienti, sono in grado di eseguire compiti sempre più complessi, che prima si ritenevano di esclusiva capacità del genere umano. Le tecnologie digitali stanno cambiando profondamente anche il mondo del lavoro. Noi tutti dobbiamo sforzarci di comprendere molto bene questa rivoluzione digitale, di valutarne i suoi effetti, i suoi benefici e i suoi rischi. Senza preclusioni di sorta. Man mano che le macchine sono in grado di eseguire compiti sempre più sofisticati, dobbiamo conoscere bene come operano e soprattutto dobbiamo riuscire a inventarci un nuovo rapporto tra noi e loro.

 

Graeme Wood, imprenditore australiano, ha affermato che “il cambiamento non è mai stato così veloce e non sarà mai più così lento”. Quali saranno i prossimi acceleratori di futuro?

Le tecnologie digitali hanno introdotto un’accelerazione impressionante nella nostra società e persino nelle nostre vite. Fino a qualche anno fa, i tempi di maturazione delle tecnologie erano molto più dilatati, ed erano necessari vari decenni prima che una tecnologia riuscisse a diffondersi nel mondo. Ad esempio, abbiamo avuto oltre 50 anni di tempo per abituarci alle automobili per capire che erano utili, ma anche potenzialmente pericolose, per regolamentarle e persino per cambiare le nostre infrastrutture. Possiamo davvero reagire nello stesso modo di fronte a una tecnologia digitale che si diffonde nel giro di pochissimi mesi? In un’epoca di cambiamenti così veloci non ci siamo neanche resi conto immediatamente del potere che stavano accumulando le piattaforme digitali. Figuriamoci riuscire a regolamentarle in tempi utili. Per il futuro quindi credo che diventerà sempre più veloce il trasferimento di tecnologie digitali sofisticate verso le normali applicazioni di uso quotidiano.

 

Per questo motivo sostiene che i giovani devono esser future-ready. Ma come prepararli? 

“Future-ready” significa essere pronti al futuro e soprattutto essere capaci di riconfigurarsi professionalmente in un mondo che sta evolvendo sempre più velocemente. Molte aziende sembrano interessate a reclutare persone che siano “job ready”, cioè pronte a essere inserite nel mondo del lavoro. Nella nostra università, la Luiss, lavoriamo molto per formare laureati “future ready”, e lo facciamo impegnandoci in molte direzioni. Cerchiamo innanzitutto di fornire ai nostri studenti una preparazione trasversale e adottiamo un modello educativo innovativo che pone al centro le domande dei nostri studenti e la loro capacità di formulare un pensiero critico. Perché non è soltanto importante fornire agli studenti le conoscenze e le competenze per risolvere problemi (problem solving), ma è ancora più importante fornire loro la capacità e la visione per saper individuare quali sono i problemi da risolvere. Che è molto più difficile. Per preparare laureati “future ready” è anche cruciale riuscire a combinare eccellenza accademica e competenza professionale, sviluppando strategie per arricchire le sinergie tra ricerca accademica e formazione.

 

In Italia, solamente 1 studente universitario su 4 è iscritto a facoltà STEM (il 27% del totale). Tuttavia, cresce la domanda, da parte delle imprese, di queste competenze. Come conquistare le nuove generazioni?

In Italia scontiamo una grossa frattura tra discipline scientifiche e umanistiche. Se guardiamo ad esempio al Digital Economy and Society Index (DESI), con cui viene monitorato il progresso digitale dei paesi dell’Unione Europea, l’Italia è agli ultimi posti. Per recuperare terreno ed evitare di trovarci con un gap digitale sempre più incolmabile è necessario avviare una seria riflessione politica, provando a invertire la rotta con una strategia chiara e con forti investimenti nella formazione sui settori più innovativi del digitale. Inoltre, bisognerebbe insegnare l’informatica già dalla scuola primaria e prevedere per ogni corso di studio universitario, di qualsiasi disciplina, almeno un corso digitale. Ne va del nostro futuro e del futuro dei nostri giovani.

 

Eppure, per un ingegnere, professore di Computer Science come lei, non ha più senso separare discipline scientifiche da quelle umanistiche. Perché?

Oggi le tecnologie digitali influenzano diversi aspetti, non esclusivamente di natura tecnologica, della nostra società. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’esplosione dell’uso dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi di machine learning, che hanno permesso di risolvere problemi considerati prima di allora impossibili da risolvere. Allo stesso tempo però ne hanno fatto emergere di nuovi e di natura diversa, anche questi purtroppo non sempre di facile risoluzione, relativi ad esempio, a trasparenza, discriminazioni, privacy, responsabilità degli algoritmi.

Si tratta di problemi che non possono essere affrontati soltanto con gli approcci tradizionali delle discipline STEM. Richiedono sempre più una stretta contaminazione e integrazione tra competenze interdisciplinari, non solo scientifiche ma anche umanistiche.

 

Da qui la A di Arts, che aggiunge una ulteriore dimensione alle discipline STEAM?

Il termine Arts in questo caso vuole rappresentare la dimensione più generale dell’umanesimo, che assume un ruolo molto importante in una società che diventa sempre più digitale. Quali sono i problemi importanti del nostro tempo? Ottimizzare i microsecondi necessari per gli algoritmi di highfrequency trading? Oppure migliorare le capacità di previsione dei sistemi di raccomandazione utilizzati da Netflix, Amazon e Spotify per vendere i loro prodotti? Oppure dobbiamo cominciare a preoccuparci seriamente anche dei problemi etici sollevati dalle tecnologie digitali?

Stiamo infatti vedendo sempre di più l’impatto delle tecnologie digitali nella nostra vita quotidiana, e in molte applicazioni assistiamo sempre di più ai problemi sollevati dall’uso di algoritmi, relativi a discriminazioni e a pregiudizi storici, soprattutto quando ci inoltriamo in ambiti molto delicati, come ad esempio il diritto penale. Per lavorare su questi temi, c’è un urgente bisogno di competenze trasversali e multidisciplinari. Per usare uno slogan, c’è molto bisogno di STEAM, e non soltanto di STEM.

 

 

La pandemia ha evidenziato anche la portata sociale ed etica delle competenze STEAM, cosa possono fare università e imprese per rafforzare questo patto tra uomini e macchine?

Credo che università e imprese debbano lavorare insieme per affrontare al meglio queste nuove sfide etiche. Ad esempio, devono interrogarsi insieme su quale deve essere il ruolo dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali. Vogliamo che algoritmi di intelligenza artificiale diventino i nuovi esperti di dominio e sostituiscano incondizionatamente gli esseri umani nei processi decisionali? Oppure vogliamo che l’intelligenza artificiale sia utilizzata per aumentare le capacità degli esseri umani di prendere decisioni strategiche? Su questi punti serve una profonda collaborazione, un dialogo continuo tra università, centri di ricerca e imprese, che porti all’adozione di linee guida e di strategie condivise che possano farci costruire un futuro migliore.

 

Se gli algoritmi governano il nostro mondo e conoscerli può aiutarci a comprendere il futuro, qual è il prossimo algoritmo che dobbiamo tener d’occhio?

Uno dei progressi più incredibili ottenuti negli ultimi tempi sono i “large language models”, come ad esempio GPT-3 di OpenAI o GShard di Google. Sono sistemi in grado di generare automaticamente, e in modo davvero impressionante, testi che sembrano scritti da essere umani. E spesso sono anche in grado di comprenderne il significato! Di sicuro questa è una nuova tecnologia algoritmica da tenere sotto osservazione. E come tutte le tecnologie, i “large language models” non sono né buoni né cattivi, ma neanche neutrali, e dobbiamo sempre tenere nella dovuta considerazione i loro possibili campi di applicazione. Basti pensare, ad esempio, a quanto sarà più facile generare disinformazione o fake news utilizzando questi sistemi. Tra l’altro sono sistemi molto complessi, e ad oggi hanno costi, consumi energetici e impronte ecologiche (carbon footprint) davvero stratosferiche.

Per cui forse, come per molte altre tecnologie, dovremmo cominciare a chiederci se ha davvero senso contribuire pesantemente all’inquinamento del nostro pianeta, specialmente se alla fine saranno soltanto pochissime aziende e organizzazioni a trarre beneficio da queste tecnologie.