
ENZO MOAVERO MILANESI: IL CORAGGIO CHE SERVE ALL’EUROPA E ALL’IMPEGNO DEGLI IMPRENDITORI
D: Una crisi finanziaria, diventata poi economica, una pandemia e adesso una guerra. Professore, ci sono episodi nella storia recente che possiamo ricollegare a quanto succede per capire meglio, valutare, ma soprattutto per evitare errori o trarre insegnamenti?
R: Ne sono convinto e penso che per capire si debba partire dai grandi cambiamenti dei primi anni ’90 del Novecento, dopo la caduta del muro di Berlino. Non c’è più la «cortina di ferro» che tagliava l’Europa in due e soprattutto, finisce la divisione del mondo in sistemi politico-economici opposti. Il ventennio che segue e comprende l’inizio degli anni 2000 vede un’accelerazione notevole nell’espansione delle prospettive internazionali. Una dinamica di solito definita con il termine «globalizzazione».
D: Quali opportunità offre la dimensione globale gli Stati e le aziende?
R: In genere, ogni scenario che muta comporta sfide, opportunità e rischi: ma non sempre viene colto il quadro d’insieme. Durante il ventennio di cui dicevo, gli equilibri produttivi e commerciali del mondo, di rilievo sia per gli Stati, sia per le aziende, sono diventati molto fluidi e l’orizzonte di riferimento si è allargato.
Dapprincipio, la nuova dimensione è vista positivamente. Gli ingredienti base furono: il tramonto della «guerra fredda», l’apparente dissolversi delle contrapposizioni ideologiche, la svolta verso l’economia di mercato di realtà come Cina, Russia e non solo. Il tutto accompagnato da un altro grande fenomeno contemporaneo: la rivoluzione tecnologica.
Infatti, negli stessi anni di cui parliamo si diffondono internet, e-mail, computer via via più potenti, più piccoli e portatili…
È un mix alquanto inedito. La globalizzazione è amplificata, resa accessibile e veloce da tecnologie in continua evoluzione che offrono enormi informazioni in tempo reale e facilitano i rapporti internazionali. Quasi niente è come prima: Stati e imprese devono tenerne conto.
D: In questa enorme fase di cambiamento, globalizzazione e rivoluzione tecnologica, come si pone l’Europa?
R: Purtroppo, non bene e per due motivi principali. Il primo è che, storicamente, le nazioni europee erano state protagoniste delle globalizzazioni precedenti, pensiamo alla scoperta dell’America e ai domini coloniali ancora immensi all’inizio del secolo scorso. Mentre adesso ci accorgiamo di non esserlo: anzi in questa nuova realtà planetaria, altri protagonisti entrano in Europa. Il secondo motivo è che il blasone sbiadito dei singoli Stati non trova nell’Unione europea un valido sostituto. Gli assetti Ue, eccezionali nel garantire 70 anni di pace, benessere e proficua integrazione economica fra i suoi membri, appaiono ora inadeguati, specie sul versante esterno.
D: E questo ci è voluto un po’ di tempo per capirlo…
R: Decisamente. Nel vorticoso mondo attuale, un conto è essere – o avere alle spalle, se pensiamo alle aziende – un attore Stato ben coeso, un conto è essere l’Unione europea, con le sue divisioni e i meccanismi complessi, spesso lenti. Sono in vantaggio sia le vere federazioni come Usa, India e altri, sia gli insiemi più centralizzati come la Cina e il democratico Giappone.
Inoltre, l’Europa ha visibili debolezze. Ce ne sono di antiche e l’esempio più noto è la carenza di risorse energetiche base e di altre materie prime essenziali: ogni loro rincaro condiziona la nostra industria e non dipende da noi. E ci sono debolezze recenti che bruciano: gli europei latitano fra gli attori di peso nell’odierno universo tecnologico, che si tratti di innovazione o del controllo delle piattaforme più versatili ovvero della produzione di microprocessori, computer e smart-phone. Una bella differenza rispetto alla prima rivoluzione industriale che portò l’Europa all’avanguardia.
Certo, come europei non scopriamo oggi di dipendere per tante materie prime e prodotti intermedi o finiti da altri Paesi. Lo sapevamo, ma ci siamo adagiati nella convinzione di essere sempre e comunque il miglior acquirente, indispensabile ai fornitori più di quanto loro lo fossero per noi, per cui non ci sarebbe mai mancato nulla. La guerra in Ucraina ha sconvolto bruscamente questa, illusoria, sicurezza.
D: C’erano stati dei campanelli di allarme nel tempo e quali?
R: Direi di sì, a cominciare dagli shock petroliferi negli anni ’70: da quasi vent’anni esisteva la CEE, ma ogni Stato membro fece a modo suo e per esempio, non si utilizzarono le potenzialità del trattato Euratom per un piano nucleare di scala europea. Arriverei poi alla crisi finanziaria che, partita così negli Stati Uniti, diventa rapidamente crisi economica, con effetti paragonabili a quella storica del 1929.
In Europa, però, ha una terza trasformazione. Diventa una crisi sovrana perché destabilizza gli Stati con un alto debito pubblico e mette in dubbio la tenuta del sistema dell’euro. La speculazione morde le disarticolazioni dell’Ue: come, ad esempio, i salvataggi degli istituti finanziari che hanno connotazioni nazionali, non europee o la Bce che non ha tutti i poteri che di norma spettano a una banca centrale.
D: La risposta europea alle crisi finanziaria, economica e sovrana è rigorista, ricordiamo. Sono introdotte tutte quelle regole per rafforzare la disciplina dei bilanci e cercare di ridurre i debiti pubblici. Qual è stato l’impatto sugli Stati?
R: L’Europa è colta impreparata. Può sembrare un rilievo banale, ma la parola «crisi» o i sinonimi sono pressoché assenti nei Trattati europei. Quando scoppia, i più ritengono che il pericolo siano le economie fiacche e con conti pubblici disequilibrati. La causa è individuata nel mancato rispetto delle regole Ue e la cura è renderle più severe.
La crisi mette a nudo le fragilità. Di sicuro, arrancano gli Stati con scarsa crescita e un elevato debito pubblico, come la nostra Italia, già così dalla metà degli anni ’90. Ma soffrono anche Irlanda e Spagna il cui quadro era opposto. Il risultato della ricetta europea, però, è un allargamento del divario fra le economie nazionali.
D: Si sarebbe potuto evitare questo impatto duro sulle economie?
R: Probabilmente, si sarebbe attenuato se l’Europa avesse fatto come l’amministrazione Obama che stanziò ingenti fondi federali. La scelta europea determinò un paradosso: proprio gli Stati in difficoltà con necessità di investimenti, non potevano spendere a tal fine per i vincoli dovuti all’alto debito pubblico. Sarebbe stato opportuno mobilitare a loro beneficio adeguate risorse Ue, anche facendo un limitato debito europeo, come aveva proposto il governo italiano. Invece, il rigore delle regole per gli Stati non fu controbilanciato da una leva finanziaria comune.
D: Professore, in questa situazione già complessa, è arrivata poi la pandemia. Due anni pesantissimi sotto tutti i punti di vista. Come ha reagito l’Europa?
R: Ancora una volta, lo scossone è improvviso e imprevisto. Nessuno è pronto e anche la risposta sanitaria europea è in affanno. Ma di fronte all’impatto sull’economia c’è finalmente una novità: il programma Next Generation Europe, e in particolare il Recovery and Resilience Fund.
Questa volta l’Europa rompe il tabù e autorizza una piccola emissione di debito europeo, come alcuni di noi chiedevano da tempo. I fondi così raccolti sono distribuiti agli Stati sulla base del rispettivo calo del Pil e di precisi piani per investimenti e riforme strutturali. Meticolosi controlli Ue garantiscono il corretto utilizzo delle risorse e il rispetto del calendario. Si tratta di una sfida imponente.
Come Italia, dobbiamo essere capaci di fare investimenti, con un ritorno attivo e positivo e di saper varare riforme che toccano gangli delicatissimi: giustizia, pubblica amministrazione, concorrenza, istruzione… E proprio mentre sembrava di intravedere la luce in fondo al tunnel della pandemia, si accende una guerra tra Russia e Ucraina…
Quanto vediamo è orribile, sconvolgente. Aggiungerei che se, da una parte, la guerra ha ricompattato Usa ed Europa nell’alveo della NATO, dall’altra, ha acuito fenomeni e situazioni a cui eravamo disabituati: penuria di materie prime per l’energia e l’agroalimentare e inflazione, con rincari forti e concentrati in un breve spazio di tempo. Ne subisce gli effetti l’attività industriale in tutti i settori e per chiunque di noi diminuisce il potere d’acquisto con diffusi timori per il valore del proprio reddito.
D: Quali diventano, quindi, le priorità adesso?
R: Con lo sguardo in avanti, secondo me, è il momento di porsi le domande cruciali. Ne menzionerei due. La dimensione nazionale degli Stati europei ha ancora senso in un mondo dominato da grandi insiemi-paese? È un nodo politico che va affrontato per chiarire definitivamente che veste costituzionale ha l’Ue.
Inoltre, tanti parlano del Recovery and Resilience Fund con l’idea di replicarlo, ma prima dobbiamo far funzionare l’attuale. Non nascondiamocelo, la cartina tornasole per l’Europa è l’Italia, perché ha un’economia di peso e beneficia di finanziamenti copiosi. Chiediamoci subito se qualcosa va ripianificato. Ricordiamoci che gli impegni presi ci vincolano fino al 2026 e qualsiasi governo scaturirà dalle elezioni del 2023 dovrà rispettarli alla lettera, pena la perdita dei fondi assegnati. Mi auguro che chi fa politica lo spieghi.
D: E rispetto alle fonti di energia?
R: In Europa, è dalla metà degli anni ‘90 che si parla di politica energetica, in particolare di gas ed elettricità. Nell’ultimo decennio l’accento è sulle fonti rinnovabili. Ci sono un disegno comune e delle norme Ue, ma molte scelte chiave spettano agli Stati. Per l’Italia è un dibattito fondamentale. Abbiamo poche fonti energetiche dirette e non tutte le sfruttiamo come si potrebbe. I diverbi abbondano: sul nucleare c’è stato un referendum e ne siamo usciti; si contestano le trivelle anche off-shore; l’eolico e il solare sono malvisti perché possono deturpare il paesaggio.
È tempo di convenire una linea equilibrata e chiara.
D: Come cambia, quindi, l’agenda europea fra tutte queste turbolenze?
R: Per capire la prospettiva va colto e possibilmente risolto al più presto il nodo costituzionale di cui dicevo. L’Ue è un ibrido: non è una federazione, né una vera confederazione e neppure un’ordinaria organizzazione internazionale. I governi devono accordarsi, una volta per tutte, e dopo va fatto un referendum per chiedere ai cittadini se approvano.
Adesso, per esempio, si discetta tanto di politica estera e della difesa europea, ma va compreso che con l’attuale assetto Ue sono davvero ardue, se non impossibili. E lo stesso vale per altre politiche pubbliche essenziali. Il problema non riguarda solo chi ha responsabilità politiche, investe inevitabilmente anche le aziende e tutti noi.
D: Un giovane imprenditore che nasce e opera in questa Europa di cosa deve equipaggiarsi, secondo lei, per poter affrontare una sfida come quella di fare impresa?
R: Ha bisogno, anzitutto, del classico bagaglio di ogni autentico imprenditore: capacità innovativa e di organizzazione per produrre e vendere beni e servizi che trovino gli sbocchi a cui aspira. E deve avere visione e ambizioni di lungo periodo, non mordi e fuggi. Parallelamente, però, l’imprenditore non dev’essere introflesso nella sfera delle relazioni con i colleghi, in senso lato. Deve occuparsi di più della realtà che lo circonda, proiettarvisi e influire. Sono troppe le imperfezioni e le incompiute sistemiche che possono vanificare i suoi sforzi come azienda.
In altre parole, direi che l’imprenditore deve aggiungere al suo saper fare impresa, anche la volontà di partecipare al dibattito politico. L’esperienza insegna che può essere illusorio affidarsi soltanto alla capacità, più o meno illuminata, di chi guida le istituzioni pubbliche.
D: Un impegno civico e civile…
R: Sì, è un impegno che l’imprenditore deve perseguire oggi più di ieri, perché i processi di cambiamento sono diventati velocissimi ed è evidente la complessiva perdita di competitività europea sulla scena mondiale. Astrarsi è autolesionista. L’imprenditore deve tenere accesa la lucerna, il suo desiderio di rendere migliore l’Italia, con il coraggio e l’ambizione dei bravi capitani d’industria italiani. Pensiamo al dopoguerra: la Nazione distrutta, una dittatura e un conflitto sanguinoso, eppure i grandi imprenditori di allora seppero contribuire alla rinascita della democrazia e a dar vita al boom economico. Ciascuno pensava di poter competere alla pari con i primi del mondo e qualcuno c’è riuscito molto bene.