Quale impresa

SOSTENIBILITÀ, INNOVAZIONE E AUTONOMIA A COMPORRE LE IMPRESE DI DOMANI

Intervista a Maurizio Marchesini, vice presidente Confindustria per le Filiere e le Medie Imprese che lo scorso 19 novembre è intervenuto a Gubbio al XVI forum Interregionale del Centro dei Giovani Imprenditori di Confindustria dove si è parlato di sostenibilità, innovazione e autonomia e di come questi valori influiscano per le imprese di domani.

 

D: In questi ultimi anni cambiamenti continui e veloci nel mondo stanno trascinando con sé economia, so­cietà e politica. La pandemia in primis ha sconvol­to le catene globali del valore, si è poi aggiunta la guerra russo-ucraina che ha trasformato e ancora ad oggi sta trasformando gli equilibri geopolitici. Come hanno reagito le aziende italiane?

R: Le aziende italiane hanno dovuto affrontare una si­tuazione difficile, prima con le guerre commerciali tra Russia e Cina, poi con la pandemia. La guerra in Ucraina ha peggiorato una situazione già difficile, de­terminando in particolare un aumento dei costi dell’e­nergia. In questo contesto, le nostre imprese hanno reagito dimostrando una grande resilienza. L’Italia è riuscita a superare e ad affrontare tutto ciò anche grazie alla propria strut­tura industriale fortemen­te basata sulle filiere, capace quindi di assorbire i colpi economici, distribuendo le negatività su più soggetti. Abbiamo dimostrato grande capacità di adattamento, confermata anche dai numeri del no­stro Pil nel 2021 e, tutto sommato, anche nel 2022.

D: Si parla sempre più spesso di reshoring, friendsho­ring, nearshoring, addirittura c’è chi teorizza la fine della globalizzazione. A suo avviso, andiamo incon­tro a un simile shock? Quali sono le soluzioni più concrete in merito?

R: Tra gli effetti degli stravolgimenti di questi ultimi anni, vi è sicuramente un cambio di paradigma del­la globalizzazione, che non è affatto finita, è anco­ra viva, soprattutto in Europa.

Sicuramente abbiamo com­preso che c’è una rischiosi­tà connessa alle situazioni politiche e alla distanza, che sta provocando un restrin­gimento dei confini, soprat­tutto tra Stati Uniti e Cina. Per quanto riguarda l’Euro­pa, invece, stiamo cercando di capire se il nostro model­lo – ossia quello dell’occu­pazione delle grandi nicchie – sia ancora valido, quali correzioni apportare e quali siano le dipendenze strategiche da cui dobbiamo svincolarci, cercando di incrementare anche il nostro grado di “libertà”.

Ma fughiamo ogni dubbio sul significato di questi termini: il reshoring è declinato in mille modi di­versi. Ad esempio, il backshoring consiste nel tor­nare a produrre in patria ciò che è stato spostato fuori; il nearshoring consiste nel produrre qualco­sa più “vicino a casa”; infine, il friendshoring che porta a produrre in Paesi che forniscono una ga­ranzia sociopolitica.

In generale, quindi, c’è una certa tendenza ad av­vicinare la produzione e non potrebbe essere altri­menti, soprattutto per il costo della manodopera. Ma bisogna prioritizzare la flessibilità del lavoro, rispetto alla produttività e questo è possibile so­prattutto grazie alla digitalizzazione, non in manie­ra tradizionale. Ed è un processo che va aiutato.

Un altro motore del reshoring, poi, è la compatibi­lità ambientale: cambiando l’approccio al pianeta sarà sempre più importante calcolare il cosiddetto carbon footprint, ossia la quantità di carbonio ne­cessaria per realizzare un determinato prodotto e nel suo ciclo di vita.

D: Un argomento di grande attualità odierna è la pro­posta di regolamento Ue sugli imballaggi. Proposta che ha un impatto notevole sulle imprese italiane che hanno impostato la propria strategia sul riciclo. Quali saranno gli sviluppi del regolamento e quali le prospettive per le imprese italiane?

R: Noi vogliamo la transizione ecologica, rappresen­ta anche un affare, soprattutto per noi Italiani che, sui nuovi mercati, siamo particolarmente brillanti. Abbiamo, però, delle riserve su questa proposta. In primo luogo, sul metodo, in quanto si è scelto lo strumento del regolamento e non della delibera, per cui non ci saranno adattamenti nazionali; inoltre, non sono stati eseguiti degli approfondimenti preliminari col rischio di perseguire il percorso sbagliato e do­ver tornare indietro dopo anni, determinando gravi rallentamenti; infine, la proposta privilegia il riuso, ossia nell’utilizzo dello stesso prodotto per il tra­sporto dei prodotti, mentre noi italiani abbiamo puntato tutto sul ricircolo, riutilizzando quindi i rifiuti per creare altre confezioni. I due metodi potrebbero viaggiare in parallelo, ma sul riuso c’è anche un tema di responsabilità, una ricaduta sulle filiere.

D: Parallelamente i cambiamenti climatici stanno ri­voluzionando il nostro ecosistema. Tutti parlano di sostenibilità, ma concre­tamente sono in pochi a farla. Marchesini Group con il Progetto To be rap­presenta un’eccellenza, ce ne vuole parlare?

R: Il mondo ha bisogno di una transizione, ma va fatta nel modo giusto. Il prossimo step consiste nell’agire. Un’azione che coinvolge tutti i consuma­tori. Siamo diventati sen­sibili ai temi ambientali e a loro volta anche le im­prese pretendono che le loro filiere lo siano.

Credo che il futuro sia caratterizzato da una sem­pre maggiore consapevolezza sulla transizione, che è strategica, ha un impatto concreto sulle aziende e non riguarda solo questioni morali.

In Marchesini Group abbiamo cercato di dare una veste a ciò che facciamo, da qui il progetto To Be. Siamo al settimo anno di bilancio sociale che tiene in considerazione anche i criteri ESG – Environ­mental, Social, Governance. Nessuno ci obbliga a farlo, ma rappresenta un valore per noi e per i no­stri stakeholder. Per questi motivi abbiamo messo in evidenza ciò che facciamo per le nostre perso­ne e in termini di sostenibilità, ad esempio, con le confezioni riciclabili che realizziamo per i nostri clienti farmaceutici e cosmetici. La strada è lunga e tortuosa e in futuro dovremo cercare anche modi nuovi per continuare a proteggere l’ambiente.

In tutto ciò ho capito che la comunicazione è im­portante: non basta fare senza comunicare perché si perde il significato di ciò che si sta facendo.

D: Progettando e producendo macchine e linee di confezionamento per l’industria farmaceutica, l’innovazione rappresenta per voi un carattere distintivo. Qual è la vostra visione sul mondo In­dustria 4.0?

R: L’innovazione è la speranza che abbiamo noi euro­pei di mantenerci un posto nel mondo. Nel nostro Paese non possiamo puntare a fare, ad esempio, high tecnology perché servono grandi imprese, grandi investimenti e capa­cità di spargere un prodotto in tutto il mondo con gran­de velocità. Ciò che invece ci riguarda sono le cose ben fatte, belle, personalizzate, anche di alta tecnologia, la capacità di creare compe­tenze, fare senza temere il nuovo: penso siano questi i nostri strumenti dell’inno­vazione. Un discorso che si lega molto anche alla scuola e alla formazione.

Sull’industria 4.0 siamo ar­rivati in ritardo e con strade anche diverse. Da noi è ser­vita un’azione del governo per far partire una cer­ta consapevolezza. Le statistiche poi ci dicono che le medie e grandi imprese italiane sono allineate rispetto all’Europa. Purtroppo, non è la stessa si­tuazione per le piccole. C’è ancora molto lavoro da fare per far crescere la cultura dell’industria 4.0 e dell’incentivazione.

D: Facendo una valutazione più macro e pensando al futuro delle imprese, quali sono i valori che possono aiutare a trasformare le sfide del nostro tempo in opportunità di crescita?

R: Il modello italiano, caratterizzato dall’importanza delle filiere, come ogni struttura industriale, ha aspetti positivi e negativi. Considerando le crisi di questi anni, le nostre aziende hanno dimostrato di saper resistere agli “stress test”. Credo quindi che dovremmo tener presente che questa è la nostra realtà e con tale consapevolezza cercare di agire minimizzando gli aspetti negativi – come, ad esem­pio, la dimensione piccola delle imprese – esaltan­do gli aspetti positivi e conservando la capacità di essere agili veloci e flessibili.