
INTERVISTA A DARYA MAJIDI
Parità di genere e tecnologie in Italia nel 2023. A che punto siamo e quanta strada c’è ancora da fare? Ne abbiamo parlato con Darya Majidi, imprenditrice digitale laureata in informatica.
D: Ciao Darya e grazie per aver accettato di partecipare a questa intervista. Raccontaci di te: quali sono le tue attività?
R: Sono felice di questa intervista, perché sono stata Presidente dei Giovani di Confindustria Livorno dal 2004 al 2007. Fui nominata proprio l’otto marzo. Ho scritto un libro: “Donne 4.0”, anch’esso uscito proprio l’otto marzo. Sono una Imprenditrice tecnologica, sono laureata in Scienze dell’informazione all’Università di Pisa, un master universitario in “Strategia e Governance Aziendale” e uno in “Women and Leadership” alla YALE University. Mi sono laureata con una tesi sulla creazione delle reti neurali e ho insegnato intelligenza artificiale per alcuni anni alla mia Università. A ventotto anni ho creato la mia prima start-up grazie a dei progetti che avevamo fra il Dipartimento di Informatica e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Ho scoperto poi che è sono stata la prima socia donna delle spinoff del Sant’Anna. Grazie all’ingresso di un fondo di investimento siamo cresciuti e poi abbiamo ceduto le nostre quote a Dedalus. Negli anni ho creato altre aziende fra varie fusioni e acquisizioni, aperture a Dubai, aperture a Milano, aperture a Bruxelles. Ad oggi non sviluppiamo più software, ma la Daxo Group si occupa della consulenza strategica della digital transformation, tecnologie abilitanti con un focus soprattutto sull’intelligenza artificiale e aspetti di genere. Otto anni fa, ho dato vita al coworking/incubatore della città di Livorno, che ha incubato una quindicina di start-up e che ora sta portando avanti un progetto di innovazione con il Comune di Livorno: Livornine 2030. Sono nata e cresciuta in Iran da papà iraniano e mamma italiana, per cui il tema delle donne in Iran ovviamente ora mi sta molto a cuore. I ragazzi in Iran ci chiedono: “Be our voice”. La situazione è scoppiata perché ad oggi il 75% della popolazione in Iran ha meno di 30 anni ed è una generazione giovane che usa TikTok, che usa i social e che si sta facendo sentire. Sicuramente questa rivoluzione ce la farà in tempi che speriamo non essere lunghi. Il nostro obiettivo è proprio quello di far sì che le tre parole Woman Life Freedom (Zan Zendeghi Azadi) diventino l’emblema di una generazione.
D: Hai scritto un libro dove parli di gender gap e digital gender gap. Come siamo messi in Italia?
R: Male. Dallo studio che fa il World Economic Forum ogni anno su circa 154 Paesi e che verifica il livello di raggiungimento della parità di genere, l’Italia è sessantasettesima. Il vero problema è che in Italia lavorano soltanto il 50% delle donne, contro una media europea del 62%, contro, ad esempio, la Germania che è al 70%. C’è quindi un problema di quantità di donne che lavorano e c’è poi un problema di qualità, perché i dati ci dicono che solo un 20% di donne sta nella parte più alta della piramide aziendale. Ho scritto un libro che parla della digital gender gap perché nel contesto in cui operavo mi rendevo conto di essere spesso l’unica donna: i dati ci dicono che nella workspace tech le donne sono all’incirca al 20%. C’è un problema di distanza delle donne dalle tecnologie. “Donne 4.0” raccontava di questa problematica e cercava di trovare una soluzione. Ho pubblicato autonomamente il libro con Amazon e dopo un po’ è diventato virale, poi hanno iniziato tutti a leggerlo, tutti a chiamarmi dall’Italia e a dirmi di fare un movimento. Così è stato: “Donne 4.0” è diventata una community. La community è diventata un’associazione che si occupa di progetti molto specifici: lavoriamo con le scuole, dove andiamo a parlare appunto delle tecnologie e dei mestieri del futuro. Lavoriamo con le start-up innovative femminili (www.startupher.it). Abbiamo dato vita al primo campo estivo per sole ragazze di quarta liceo dedicato all’intelligenza artificiale e all’etica (www.aixgirls.it). Lavoriamo anche molto sulla governance e sono stata invitata con grande onore a far parte del tavolo tecnico della Camera dei Deputati sul tema. Sono stata di recente a New York all’incontro delle ONG, in concomitanza con quella che viene chiamata la Commission of Women Status (CSW 67), dove le Nazioni Unite inviteranno tutti gli Stati membri a dire la loro sul tema dell’empowerment tecnologico, su quanto le donne sono distanti dalle tecnologie e come avvicinarle.
D: Da dove arriva questa distanza dalle tecnologie?
R: È culturale: il problema è in generale sulle STEM. Negli ultimi anni fortunatamente su alcune discipline come ad esempio matematica e medicina, il numero di donne è cresciuto, ma purtroppo nelle materie prettamente digitali quali informatica, ingegneria informatica, ingegneria meccanica il vissuto delle donne è che sono materie fredde. Lo sforzo che dobbiamo fare è far capire in primis alle facoltà di informatica che ciò che producono non sono programmatori, ma persone che hanno abilità di logica, di problem solving, di analisi e di visione.
D: Parliamo di work-life balance. Cosa è cambiato negli ultimi anni e quanto il Covid ha modificato le nostre abitudini?
R: Il Covid sicuramente ha accelerato la digital transformation mondiale: anche quelle famiglie che usavano le tecnologie, ma in un modo molto superficiale, si sono accorte o hanno dovuto subire la digital transformation. Abbiamo visto i nostri ragazzi studiare online, abbiamo scoperto che quello che noi tecnologici già facevamo ha un nome e si chiama smart working e abbiamo capito che le tecnologie non sono solo strumenti di connettività ma di processo. Oggi c’è molta più consapevolezza del valore del lavoro che è visto come uno strumento di valorizzazione della dignità. Ma non si vive più solo per lavorare: questa è una cosa che i giovani hanno capito e che ci stanno insegnando. Il work-life balance è sempre, dati alla mano, ostile alla donna che fa comunque fatica a fare carriera e a crescere professionalmente perché quando entra in maternità automaticamente è come se mettesse in folle per un anno e mezzo e questo fa sì che gli altri la superino. Quando poi rientra, se l’azienda è friendly e amichevole, il posto c’è e può recuperare, ma spesso l’azienda è la prima ad ostacolare con orari assurdi. Noi di Donne 4.0 abbiamo le nostre C: competenze, cuore, coraggio: dobbiamo avere le competenze per stare ai tavoli, cuore per cambiare le cose e il coraggio per cambiare le regole. Abbiamo poi altre tre C: cultura, consapevolezza e communities. Spesso le aziende non hanno la consapevolezza che la situazione delle donne è davvero più difficile per motivi culturali. Ad esempio: quando nasce un bambino la donna per legge ha cinque mesi di contribuzione e i maschi soltanto dieci giorni. Anche in questo caso, la cultura dei giovani sta cambiando e i papà dicono di voler stare a casa di più, vicini alla propria famiglia. Questa è una grande opportunità per tutti di condividere il carico familiare, come già succede in altri Paesi europei. Ricordo che Donne 4.0 (www.donne4.it) e aperto anche agli uomini!
D: A proposito di cultura: si parla di quote rosa per legge nei CdA. Ha senso che una legge ti obblighi a inserire le quote rosa? E porta davvero a indirizzare un cambio culturale?
R: Prima della legge sulla cintura di sicurezza nessuno la metteva, nonostante tutti sapessero che ci salvava la vita. Spesso la legge va a rendere obbligatoria una consapevolezza necessaria. Sono favorevolissima alla regolamentazione e non c’è alcuna dicotomia fra competenze e quote: c’è già una selezione super naturale delle donne e quelle che riescono a entrare sono competenti. Con la legge Golfo-Mosca nelle aziende quotate la presenza delle donne nei CdA è migliorata. Purtroppo, dal punto di vista culturale c’è ancora molto da fare ed esistono ancora casi di aziende che una volta venuti meno gli obblighi delle quote rosa hanno reinserito solo uomini nel proprio CdA. Da informatica lo dico ancora più forte: anche nei progetti ci deve essere una multidisciplinarietà, una multi-consapevolezza e una presenza di genere. Con l’intelligenza artificiale è fondamentale introdurre le competenze, le conoscenze e le sensibilità femminili nel software, altrimenti ci troveremo con degli stereotipi/bias che diventano leggi. Esistono già, ad esempio, algoritmi bancari che valutano diversamente il punteggio del nucleo familiare per la concessione del credito a seconda che la domanda di finanziamento arrivi da un uomo o da una donna. In questo contesto, quindi, io credo nella diversity e nell’inclusion in tutti gli ambienti lavorativi, ma in un modo ancora più specifico in quello informatico. Altro tema a cui tengo è la certificazione di genere, che non è obbligatoria ma va a tirare fuori quelle aziende che non fanno pink-washing e non parlano di sostenibilità tanto per dire, ma che davvero vogliono fare un percorso virtuoso e sano verso una direzione ben precisa.