424 mila nuovi posti di lavoro stabili per il 2018, per gli under 35. Queste le prima stime sull’efficacia della “proposta Giovani” elaborate dal governo su progetto di Confindustria.
Ma c’è di più: grazie ad industria 4.0, i profili professionali emergenti saranno quelli dei data protection officer, project manager industria 4.0, esperti di blockchain, e ancora data labelling specialist. Professioni tutte nuove, figlie della digitalizzazione e della “data economy”, che in qualche maniera, scongiurano il paventato rischio di disoccupazione causata dalla disputa tra “uomo e robot”.
Se all’aumentare della digitalizzazione aumenta il numero di figure professionali innovative, i giovani imprenditori non possono che essere in prima linea nell’ottenere un’implementazione di industria 4.0 più diffusa possibile, così da stimolare nuovi processi produttivi e, con essi, l’acquisizione di nuove competenze e figure professionali.
Il corollario di questa circostanza, è che le imprese 4.0 sono ancora più dipendenti da una buona formazione 4.0, che deve iniziare a scuola e proseguire lungo tutto il percorso professionale e la nuova catena produttiva. Ecco la ragione per cui l’impegno di Confindustria a favore degli ITS, dell’alternanza scuola-lavoro e della formazione tecnica è così radicato: nelle scuole si lavora all’innovazione di domani.
I numeri sul mismatch tra domanda e offerta di lavoro, relativo ai giovani fino a 29 anni, meritano una riflessione. Le aziende che cercano specialisti in scienze informatiche, fisiche e chimiche, in dicembre risulta che abbiamo 1540 posizioni aperte, ma il 65% di queste è difficile da rintracciare sul mercato. E’ poi introvabile un operaio metalmeccanico su 2.
Il nostro sistema imprenditoriale rischia quindi di essere un gigante dai piedi di argilla: come potremo continuare ad essere una potenza manifatturiera, senza la materia prima, il capitale umano?
La proposta elaborata da Confindustria e introdotta in legge di bilancio, porterà almeno due cambiamenti positivi prevedibili: il primo, ovviamente, abbattere il tasso di disoccupazione giovanile.
Il secondo, allargare la presenza dei giovani nelle aziende, possibilmente facendo rientrare una parte dei nostri cervelli all’estero, con l’obiettivo di iniettare una dose massiccia di nuove competenze, in particolare quelle digitali, all’interno dei meccanismi aziendali.
Resta un dato di fatto: i profili professionali più ricercati, ad oggi in Italia, sono impiegati, commessi, cuochi, camerieri, infermieri, autisti. La nostra si conferma un’economia che ha bisogno più di braccia che di teste, e questo si rispecchia nei fenomeni migratori italiani: scappano all’estero i cervelli che formiamo in cerca di lavoro knowledge intensive, e immigrano qui lavoratori adatti a ricoprire le mansioni vacanti.
Dobbiamo partire da questa fotografia del paese per elaborare una strategia di lungo periodo: se da un lato l’obiettivo può essere l’integrazione della manodopera italiana con quella di altri paesi, dall’altro, è necessario rendere l’Italia un magnete per i “cervelli”, così da attirare quelli italiani in fuga e, nella stessa misura, quelli provenienti da tutti gli angoli del mondo.